S A7. Nido
1966
scultura in gesso
maternità a mezzo busto
h cm 23 x 20
L’opera è stata esposta nelle seguenti mostre:
- 25 maggio – 8 giugno 1967, Galleria Internazionale - Varese, Via Veratti, 9 (fotografia su dépliant)
- 16 – 29 maggio 1971, Galleria Brixia – Brescia, Via Fratelli Porcellaga, 14
- 17 ottobre – 4 novembre 1971, Convitto IRE – Besozzo (Va) (fotografia su dépliant)
- 9 Febbraio 1974 , Berman – Galleria d’Arte Figurativa, Via Arcivescovado, 9 – Palazzo Tirrena – TORINO (fotografia su dépliant)
Pubblicata con cliché cm 10 x 7,5 su “Il Triangolo”, 1973 – 1974, a cura di Roberto Barion. Volume dedicato a pittori, gallerie e stampa specializzata. Edizioni Italo-Svizzere – Besozzo (Varese)
Memoria
Ogni volta che mi fermavo in quello studio, una nuova opera mi rapiva, mi assorbiva per darmi delle sensazioni che neppure mentalmente verbalizzavo, ma che mi restavano così, pure, nell’anima: senza la limitazione di un nome né la qualifica di un aggettivo, senza più un colore che le definisse né un contorno che le racchiudesse. Emozioni che esistevano nella loro gratuità e non mi riusciva di leggerle razionalmente: nascevano, vivevano, mi facevano vivere: non mi occorreva altro.
E venne la volta in cui scoprii la “Maternità”: quella “Maternità”! È un’opera che non assale con le sue forme, non colpisce l’attenzione con la sua mole, non ruba lo sguardo con la sua altezza. Discreta, silenziosa, sta tra le altre sculture con aria dimessa, senza neppure guardarsi intorno: non cerca l’approvazione dello spettatore, non richiama il visitatore, non le importa neppur più della scultrice: vive di una vita propria, di un fluido continuo che scivola tra Madre e Figlio, e questo fluido diventa una nuova vita, un’altra creatura, una realtà non scolpita ma presente, come un’emanazione.
Una Madre giovane, semplice, con i capelli appena ravviati, come può averli chi fa della propria acconciatura una necessità dignitosa, non una ricerca d’apparenza. Il capo reclinato, le spalle dolcemente spinte in avanti e le due braccia piegate a sostenere e trattenere formano un nido, una culla pronta da millenni, un naturale rifugio in cui un naturale bambino naturalmente vive, tutt’uno con la Madre anche dopo il parto.
Ritratta a mezzo busto, inclinata all’indietro, con la sinistra la Madre sostiene senza sforzo il corpo del piccino, che si indovina raggomitolato, piegato a toccar con le ginocchia i gomiti tanto che, oltre alla curva della schiena, solamente la testa spicca, abbandonata sul seno materno e contro di esso amorevolmente premuta dalla mano destra di lei, dall’intero braccio.
Tutta la parte destra è raccolta, riunita, intima: la guancia si abbassa a sfiorare la spalla e la luce ammorbidisce lo spiraglio tra i due tratti; la mano preme il capo del bimbo su un seno nascosto dal braccio: par quasi che la Madre cerchi sicurezza in sé, nel tepore della propria pelle, nel ricreare la propria posizione prenatale, quand’ella stessa stava raggomitolata in seno ad altri …
Tutta la parte sinistra, invece, è ampia, liscia, distesa, fiduciosa: la pianura feconda del decolleté si innalza su un collo liscio, proteso e quasi sensuale, si arrotonda sulla spalla e sconfina in un braccio appena piegato, che riprende la curva della schiena del bimbo: curve e morbidezze di donna appagata, completa, sicura di sé, che si offre alla Vita – e la Vita non l’ha ancora delusa.
Forte e tenera la Donna, abbandonato e fiducioso il Bimbo, l’uno nell’altra, l’una per l’altro … In questa unione senza sussulti, in questo contatto senza turbamenti, in questa fusione senza annullamento, i due sono per sempre immobili. Nella loro intensità e serenità approdano all’eternità del sentimento, sfociano nella contemplazione reciproca, vivono non più di una vibrazione umana ma di una immensità divina.
Si sono creati a vicenda: la Madre ha dato vita a un Bimbo, e il Bimbo l’ha creata Madre: ambedue creatura e Creatore, si dicono silenziosamente il loro grazie, si adorano, e nell’abbandono di ognuno dei due si legge una testimonianza: “Tu sei il mio Dio!”.
Assolutamente imparziale, Nuzzi ha trasfuso in questa Maternità il suo ancor vivo desiderio di abbandonarsi a braccia familiari, pure, conosciute e sicure, e il suo struggente bisogno fisico di creare un’opera perfetta fin nella vita, nell’anima … Madre e Figlia contemporaneamente, Creatrice e creatura, Nuzzi non parteggia per alcuno dei due, e i due così vivono di vita propria, indipendente: troppo perfetti, con troppa anima per chiedere ad altri la vita.
Finalmente, un giorno fui sola in quello studio, libera di muovermi a piacere, di soffermarmi su ogni opera senza che occhi attenti spiassero le mie reazioni, senza dover commentare a voce, senza dover esprimere delle emozioni che non avrei saputo esprimere.
Nel silenzio, ecco riemergere la Maternità, crescere sul suo basso supporto, diventar grande come e più della stanza, zittire gli altri lavori, chiamarmi con la sua vita.
Mi accostai, ma non mi bastava: così, dall’alto, si scorgeva solamente la fronte del bimbo.
Mi accucciai per vivere alla loro altezza, viso a viso, respiro a respiro, ma gli occhi non mi davano più di quel che già mi avevano dato, non mi erano sufficienti a penetrare maggiormente.
Li chiusi, delusa, desolata, come sempre mi sento quando raggiungo il limite delle mie possibilità, quando i miei sensi e il mio corpo restano a terra nelle volo delle mie tensioni.
In questo muto silenzio degli occhi, stesi la mano. Come per solidarietà, per confidare ai due la mia triste rinuncia ad andare oltre. Credo che il miracolo di ogni gesto d’amore, di ogni bacio, di ogni carezza nasca così, dall’impossibilità umana di accogliere un altro e di farsi accogliere totalmente, dall’impotenza a superarsi. Ma, spesso, la rinuncia è feconda: quel giorno avvenne anche per me il miracolo.
La mia mano non sentì la materia, ma la forma.
Nel palmo mi entrò una rotondità morbida, solcata. Le dita seguirono le pieghe dei capelli, scesero sulla schiena e la mano la coprì interamente, mentre i polpastrelli seguivano le braccia, si insinuavano tra il capo del bimbo e il seno materno, risalivano sul collo, tornavano ai capelli, e nella fessura tra l’anulare e il medio premeva la morbidezza di una spalla.
Da quelle curve, sinuosità, solchi mi veniva una forza intatta, un’emozione nuova, una sensazione di pace, di benessere, di abbandono.
Ormai in ginocchio, gli occhi sempre chiusi, cercai nuovamente quell’unione: spostai la mia anima sulla punta delle dita, e lì vissi – mi pare per un’eternità! : ancora i capelli, il viso di lei, la nuca di lui, le dita di lei, la guancia, le palpebre, la spalla, la schiena di lui … E nuovamente, con l’intero palmo, cercai di comprendere il tutto, accarezzando, ripetendo più volte il cammino dal capo ai gomiti, dai capelli alle mani, instancabilmente, quasi freneticamente, come s’io cercassi un’altra verità – ma non sapevo quale! - , come s’io intuissi che l’essenza dell’opera era altrove – ma dove? In ciò che le mie mani trasmettevano alla mia anima riconoscevo qualcosa di consueto, di quotidiano – e lo scartai - , ma scoprivo qualcosa di insolito, di nuovo, e su di esso mi concentrai, cercando di potenziarlo.
Tutto, d’improvviso, mi parve così ovvio, così naturale, così incredibilmente evidente nella sua armonia: quel tratto non poteva che smorzarsi nell’altro, questa curva doveva inevitabilmente portare all’altra curva … come se tutto non fosse che la riproduzione fedele di un’opera che già esisteva in me, prima di me, nell’infinito e nell’eternità, nell’astratto della mia mente e nel concreto delle mie mani. Percepii, intuii il rapporto che doveva esserci stato tra Nuzzi e quest’opera, come doveva esserle uscita spontaneamente dalle dita, ricreando un equilibrio, seguendo una musica anteriore al mondo, obbedendo all’impulso eterno della dolcezza e della tenerezza.
Finalmente, si fece luce su un discorso fattomi da Nuzzi, a proposito dell’ispirazione per un’altra scultura: mi aveva raccontato che le era venuta, quasi d’improvviso, in una sala d’aspetto, ed era giunta così prepotente da mettere a disagio, così necessaria da generare inquietudine, così impellente da doverla subito abbozzare, su un foglio di carta qualsiasi, pur di darle una forma in attesa di tornare a casa e trasmetterla alla plastilina.
Le mie dita, quel giorno, mi avevano ripetuto che la forma è talvolta padrona: ha il suo linguaggio, le sue necessità, le sue esigenze, una sua propria energia: chi, come Nuzzi, confidente di Dio Creatore, la riceve, non può che interpretarla, trasfonderla in forme terrene, tradurla in linguaggio umano. Ma la vera energia di una scultura, la sua forza creatrice rimane intatta ed inintelligibile a chi freddamente l’osserva, a chi non la tocca, a chi non ricerca fisicamente di immedesimarsi, di unirsi, di perdersi, a chi non fa silenzio nei propri sensi per ascoltarla.